Un vuoto che fa male a una società che non conosce l’autocritica

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Palloncini bianchi e fiori. Lacrime e silenzio. Una dura prova per genitori, fratelli, amici e parenti. Quando muore un ragazzo è sempre un lutto immenso. Sicuramente un lutto che va al di là della perdita, è un evento che mette tutti alla prova. Ognuno viene messo di fronte alle proprie paure, ai propri dubbi. I genitori si immedesimano, i conoscenti si chiedono come sia stato possibile, i coetanei si infuriano, altri piangono. Tutti non si rassegnano. Quando un ragazzo muore porta via con se non solo la sua vita, ma un pezzo di mondo, speranze, sogni, ambizioni sue e di chi gli sta intorno.

Troppo, niente. La leggerezza dell’adolescenza

Ci ritroviamo così, a pensare a cosa sia giusto concedere ai figli, quando dire sì, quando no. Cosa permettere loro di fare. Con la costante paura che possa capitargli qualcosa, che qualcuno possa fargli del male. Mai penseremmo che siano proprio loro gli artefici del proprio destino, anche quando infausto. Dal canto loro i ragazzi hanno una grande dote, quella di non pensare “troppo”, di agire d’istinto, al momento. Di non avere paura quasi di niente. Di sentirsi onnipotenti. E anche un po’ più furbi degli adulti. E’ la bellezza dell’età. Si chiudono le porte alle spalle e sfrecciano via verso gli amici, su bici, monopattini, motorini, auto. Non si finisce mai di essere figlio così come non si finisce mai di essere genitori. Anche quando si interrompono i rapporti la natura dell’essere umano resta quella, continui ad essere padre, madre, figlio, figlia. Magari sarai pessimo nel tuo ruolo, ma sarà comunque il tuo ruolo.

Bisogni e voglia di strafare

Tornando a quanto accaduto a Giulio, la cui morte ha lasciato un vuoto dolorosissimo in città, è necessario porsi delle domande. Cosa c’è che non va? Qualcuno sta sbagliando? E nel caso, dove si può migliorare? La città cosa offre ai giovani? Probabilmente molto più di quello che offriva qualche decennio fa, ma forse non è quello che serve davvero ai ragazzi. Perché manca sempre di più quel sentimento comunitario, la condivisione, il rispetto verso gli altri, anche quelli diversi, quelli di cui “non ce ne importa nulla”. Una ricerca costante di una scossa, di uno choc. Anche quando sembra che abbiano tutto, qualcosa manca.

In un attimo tutto cambia

La sera i genitori vanno a dormire, chiedendosi se tutto quello che è stato fatto sia abbastanza, per poi passare a pensare ad altro da fare. Madri e padri che chiudono gli occhi pensando di trovare la mattina dopo i propri figli nel letto. Di doverli svegliare, ancora una volta. Di doversi prendere cura di loro, ancora una volta. Di dover preparare quel manicaretto, di lavare quella maglia, di trovare una soluzione per gli allenamenti o per le prove. Ancora una volta. Ma, all’improvviso, tutto questo non c’è più.

Lo scaricabarile

Troppo facile dire che la colpa sia dei genitori che danno troppo, o dei ragazzi che se ne fottono. Della scuola che preferisce non fare per non essere redarguita, delle amicizie che durano il tempo di una chat o di un selfie. Ah certo, la colpa è della società – come se si fosse autocostruita e imposta a tutti noi. La colpa è della politica che non si applica, della chiesa che allontana. Diamo la colpa pure al clima, troppo caldo, troppo umido, troppo ventoso. Colpe ce ne stanno, e sono di tutti. Dei genitori, dei figli, dei professori, dei vicini, degli amici. Di chi fa finta di niente, di chi non ci tiene, di chi tratta il prossimo con indifferenza.

Che si chiami Giulio, Maria, Annalisa, Antonio. Di un esercito di ragazzi resta un’immagine, una foto, un ricordo. Un fiore, un rombo di una moto, una foto in gita. Restano i genitori, i fratelli. Immagini, suoni, attimi da non scordare, l’unico modo per farli sopravvivere. Perché come scrisse Benedetto Croce, dimenticare e scordare sono due atti completamente diversi. “Onde l’italiano rammentare (e dimenticare), si riferiscono piuttosto alla mente, il ricordare (e scordare), si riferiscono piuttosto al cuore”.

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