Ferragosto, il cocomero e quei sogni che non cambiano nel tempo

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Ferie d’agosto, un tempo si chiamava villeggiatura. Tutto sembrava fantastico, anche la borsa frigo dal peso non ben specificato. Non c’era vergogna del panino nella carta di alluminio. Non c’era accuratezza nelle preparazioni perché non c’era l’ansia da selfie per i social. Le foto si scattavano e spesso si vedevano stampate solo a Natale. Erano poche e per questo più preziose. Anche quelle sfumate e mosse catturavano istanti.

Una tra mille

Oggi si corre alla ricerca dello scatto giusto tra migliaia. Quello con l’angolazione più acchiappa click. E nella quantità si perde la qualità del momento. Oggi facciamo per gli altri. Ma c’era quel tempo in cui facevano le cose per noi. In cui ci divertivamo davvero e non per apparire divertiti. Il pranzo di Ferragosto era una tappa fondamentale, come la Pasquetta e il primo maggio. Occasione di rimpatriate tra decine di persone, al mare, in campagna, in montagna.

No vegan

Non c’erano ricette vegane, le verdure erano fritte o sott’olio. Nessuna pietanza da Masterchef, ma scodelle e teglie da panico. Il pane tagliato in fette alte due, tre centimetri e avvolto in strofinacci di cotone. Un odore stupefacente. Macchine cariche all’inverosimile. L’entusiasmo, la voglia di fare. Pranzi infiniti, ore e ore. Vino a fiumi, quello di casa, quello che stonava e non faceva male. La birra nella bacinella col ghiaccio insieme al cocomero, o nella busta legata lungo le rive del ruscello. A mollo nell’acqua gelida. Il vino senza etichetta.

Due o tre bicchieri

Quello che dopo due, tre bicchieri partiva la discussione e il dibattito che spaziava dal calcio, alla politica, all’edilizia, alla gestione degli affari di famiglia. A volte si passava alle mani, altre agli insulti, una costante erano le bestemmie più colorite. Una protagonista indiscussa: la casa, il sogno di intere generazioni. Un tetto sicuro. Una casa popolare, perché no. E nei comprensori capitava ci fossero intere famiglie, generazioni di fratelli e cugini cresciuti così. Per decenni la casa è stato il sogno, l’obiettivo, la priorità. Un luogo sicuro, la certezza.

Lo stigma sociale

Nel tempo sono cambiate le esigenze, le abitudini e le risorse. Avere o vivere in una casa popolare è passato di moda, diventando lo stigma sociale per molti. Nella gestione delle cose pubbliche l’edilizia popolare è stata collegata a problematiche sociali, aree in cui ghettizzare, poi aree da “riqualificare” con qualche contentino della politica “inclusiva e solidale”. Un giardinetto, un campetto, una panchina. Sempre ai margini. E quello che era un mondo, un sogno, è diventato un incubo, un luogo non luogo. Dimenticandosi che le apparenze continuano a ingannare e la realtà è ben diversa. La casa per molti resta ancora un sogno, una necessità, una salvezza. Un luogo sicuro.

Belle, ciao!

E la società e quella politica fatta di radical chic che professano equità intonando Belle Ciao ma che vivono in attici super accessoriati andando in vacanza nelle stupende isolette greche, parla di edilizia popolare come di qualcosa di equo e giusto, infilandola in agende programmatiche che restano su carta. Magari ci pensano regalandosi anche qualche settimana in montagna, perché no! che fa tanto bene. Edilizia popolare, una casa per chi ne ha bisogno, liste d’attesa infinite dimenticate in qualche cassetto. Famiglie che si impossessano di case lasciate lì, chiuse, ad aspettare chi le abiti e le riempia di risate, profumi, discussioni, confusione. Di vita. Di programmi per una gita fuori porta e un pranzo di Ferragosto da trascorrere con amici e parenti.

“I ferragosto” passano

E ì “ferragosti” passano, tornano gli autunni, i Natali e ancora si alternano governi e amministrazioni. Ma i sogni restano. E per molti i sogni ricordano i disegni dei bambini, una casa, un albero, un cane e il sole in alto nel cielo. Quello sempre più blu.

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