Venerdì Santo, il processo a Gesù e la morte sulla croce

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E’ mattina a Gerusalemme. Ed anche abbastanza movimentata per il procuratore romano Ponzio Pilato. Siamo in Aprile, intorno all’anno 30, c’è la Pasqua ebraica e un problema da risolvere. Non ha avuto molta fortuna nella sua carriera politica Pilato, si trova ai confini dell’Impero Romano, in Giudea, in una delle province sicuramente meno prosperose. Ma ciò non garantisce che ci sia poco da fare. Davanti a lui c’è un predicatore trentenne, portato al suo cospetto con la forza. Tale Yehoshua ben Yosef, per fare più semplice Yeshùa. Insomma bisogna dare un’altra sentenza, una delle tante. Non può immaginare che da quel giorno la sua scelta e il suo nome saranno legati al caso “giudiziario più celebre e clamoroso della storia dell’umanità”.

Un processo che si chiude in pochissime ore con la condanna a morte nella forma più crudele ed infamante dell’epoca: la crocifissione. Ma cosa ha fatto questo rabbi di Nazareth per meritare tutto ciò? Qual è il capo di accusa?

Le fonti storiche e l’accusa falsa di deicidio

Come afferma il cardinale Gianfranco Ravasi nel suo libro Biografia di Gesù, è bene anzitutto citare la dichiarazione conciliare Nostra Aetate del 28 ottobre 1965, che ha finalmente segnato la svolta della Chiesa: «Se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi né agli ebrei del nostro tempo». Una accusa tra l’altro che non sta in piedi. In questa vicenda sono tutti ebrei. Gesù e anche i suoi detrattori. Per farla breve: quelli che gridano «crocifiggilo!» come Maria, i discepoli e gli evangelisti. Tranne Pilato: che era l’unico, in quanto procuratore romano, a poter decidere la pena di morte. 

Il processo è annoverato nelle Antichità giudaiche (XVIII) dallo storico ebreo Giuseppe Flavio, che in un passo cita Gesù e scrive: «Dopo che Pilato, dietro accusa dei maggiori responsabili del nostro popolo, lo condannò alla croce, non vennero meno coloro che fin dall’inizio lo avevano amato». Poi c’è la versione di Tacito, negli Annali (XV). Ci parla dei «tormenti atroci» inflitti da Nerone ai cristiani e spiega che questi «prendevano il nome da Cristo, condannato a morte dal procuratore Ponzio Pilato sotto l’impero di Tiberio».

I due processi

Secondo la versione degli evangelisti il primo processo a Gesù è celebrato davanti al Sinedrio. Nella Gerusalemme del tempo era l’organo politico-religioso responsabile della amministrazione giudaica, molto relativamente autonoma, riconosciuto si, ma sempre e comunque dipendente dall’autorità di Roma. 70 membri divisi in tre classi sociali: sacerdoti, anziani e gli scribi.

Nella notte del celebre “In verità vi dico, uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà” e del bacio più famoso della storia, quello di Giuda, Gesù era stato arrestato nel podere detto Getsemani. Preso in consegna da una «folla con spade e bastoni» mandata dalle autorità del Sinedrio. Viene condotto prima dal sacerdote Anna e poi a casa di Caifa dove avviene la prima discussione. Secondo le fonti evangeliche Gesù viene prima accusato di aver detto «distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Una frase che secondi varie interpretazioni egli avrebbe riferito «al tempio del suo corpo», come nota tra l’altro anche Giovanni. I

l momento fatidico però è quando Caifa domanda:  «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?». Il Vangelo più antico, quello di Marco, che si ritiene scritto prima della distruzione del Tempio nel 70 a.C., riporta la risposta dell’imputato: «Io lo sono. E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo». È a questo punto che il sommo sacerdote si straccia le vesti e esclama: «Che bisogno abbiamo di altri testimoni? Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?». E l’assemblea del Sinedrio risponde: «È reo di morte!». 

Stracciarsi le vesti

Lo stracciarsi le vesti, non è un allegoria, è un gesto rituale davanti a un’ignominia. Gesù ha candidamente ammesso di essere il Messia atteso da Israele (Mashiah, «unto» con l’olio sacro e quindi consacrato: in greco Christós, Cristo). Ma non solo, lo ha fatto, citando un passo del profeta Daniele che presenta nel «Figlio dell’uomo». In sostanza la stessa risposta che Dio da a Mosé quando ne chiede il nome, rivolto al roveto ardente sul monte Oreb. In sostanza il tetragramma YHWH (Jod, He, Waw, He) che gli ebrei non pronunciano. Il grande biblista gesuita Silvano Fausti nel suo commento a Marcoafferma: «Gesù sarà condannato non per testimonianza altrui, ma per questa sua rivelazione».

Per il Sinedrio ci sono gli estremi per la massima pena, ma l’assemblea non ha il potere di emettere sentenze. Gesù vene portato da avanti a Pilato per il suo secondo processo, quello che gli costerà la vita.

Davanti a Pilato

In un primo momento, Pilato è molto diffidente e preannunciando l’esito delle sue azioni cercò di scaricare il giudizio su Erode, procuratore della Galilea. Ovvio che quest’ultimo rimandò indietro l’imputato diffidente, cercò invano di scaricare il giudizio su Erode, procuratore della Galilea, che rimandò indietro l’imputato. Ma la sete di condanna sembra essere irrefrenabile e quindi al procuratore romano della Giudea viene presentata dai rappresentanti del Sinedrio un’accusa più politica: «Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, impediva di dare tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re». E questa è la sentenza. INRI l’acronimo apposto sul braccio verticale della croce, sopra la testa di Gesù, nella lingua latina significa: «Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum». «Il re dei Giudei», un monito per chiunque di in poi volesse ribellarsi al potere di Roma.

Il re dei Giudei

Secondo Marco. Pilato chiede: «Sei tu il re dei giudei?». Gesù risponde: «Tu lo dici». Pilato insiste, Gesù non risponde più nulla. Come detto in principio a Gerusalemme sono i giorni della Pasqua ebraica e il procuratore per questa festa «era solito rilasciare un prigioniero». Nelle carceri c’è un tale che si chiama Barabba. Secondo le testimonianze si trovava in carcere insieme ad alcuni ribelli ed aveva ucciso un uomo durante dei tumulti. Un vero rivoluzionario. Ed ecco dunque che va in scena l’atto celeberrimo: Pilato chiede alla folla: «volete che vi rilasci il re dei Giudei?». La gente «sobillata dai sommi sacerdoti» invoca a sorpresa il nome di Barabba. Poi l’altra fatidica domanda: «che male ha fatto?», la folla risponde: «Crocifiggilo!». 

Secondo Marco: «Pilato, volendo dare soddisfazione alla folla, rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso». Matteo, invece, il più rancoroso con i suoi connazionali, riporta un’altra scena topic. Ovvero il procuratore che se ne lava le mani e dice: «Non sono responsabile di questo sangue, vedetevela voi!». E aggiunge la risposta del «popolo», cui arriva a far dire: «Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli».

L’esecuzione 

Gesù viene consegnato per essere crocifisso, non prima di essere flagellato. Da qui parte il racconto della Passione che in buona parte del mondo, il Venerdì Santo, è protagonista nella Via Crucis. Finito il supplizio si parte per la salita al Golgota. i soldati fermano un tale Simone di Cirene perché porti il patibulum, l’asse trasversale della croce. Mentre quello verticale è già piantato sul luogo dell’esecuzione. Il condannato viene appeso alla croce, inchiodato per i polsi.

Ed ecco un’altra scena simbolo della Passione di Cristo. Un soldato tende a Gesù agonizzante una spugna intrisa di «aceto». In realtà non è così: i soldati romani usavano bere vino mescolato con acqua per dissetarsi. Ed ecco che forse quello che comunemente appare come l’ultimo gesto irrispettoso nei confronti di un uomo che muore, potrebbe essere invece un gesto estremo di pietà.  «”Tutto è compiuto”, disse. E, chinato il capo, spirò».

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