RESPIRO – Il regno dei cotorni: la Majella. Una vecchia storia…

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Erano gli anni della sezione dei cacciatori e delle partite a Tressette e briscola. Vicine alle nostre passioni solo alcune riviste, Diana per i cacciatori e Pescare per i pescatori. Erano gli anni che per “acculturarsi” si era soliti aprire enciclopedie o comprare libri specifici di cui, a riempire i miei ricordi, sono quei tanti disegni di azioni di caccia o degli uccelli rigorosamente redatti a mano e copiati. Per non parlare di quei volumi relativi alla fauna ittica dei nostri fiumi, laghi e mari. Di questi libri ne ricordo ancora il numero del volume e la pagina di ogni singola specie, ma soprattutto l’odore della carta e quelle immagini che la notte mi regalavano sogni ricchi di avventure.

Cassino in espansione

Erano gli anni di una Cassino ancora in espansione, dove il commercio era strettamente legato alle esigenze dei cittadini. La città contava oltre due armerie e tre negozi di pesca. Tra questi ricordo con affetto l’armeria per via De Nicola e la mitica Bottega del pescatore. Erano gli anni che le aperture di pesca sui nostri corsi d’acqua, oggi quasi distrutti, erano appannaggio di pescatori di ogni dove. Vere feste, nonostante il freddo!

Erano gli anni di personaggi mitici come Ernesto “Sparalesto” e Giuseppe “Saccaregl’”. Di persone di cui ancora ne porto nel cuore ricordi ed aneddoti come Giovanni Cernesi. Erano gli anni dove a Cassino si era cacciatori e pescatori, era tra gli anni ’80 ed inizi ’90. Ricordo perfettamente quella sera, in “sezione”, mentre osservavo papà e zio Dario tra un “busso” e un “ribusso”, tra le tante chiacchiere una domanda secca rivolta da Giovanni a papà – «Fra’ domani che pensi di fare?” – la risposta di mio padre fu altrettanto netta – “Majella”.

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La mecca dei Cotorni

Io, poco più che decenne, attento sempre a percepire ogni stimolo che venisse da quel “dire”, iniziai ad interrogarmi. Nonostante l’età ero solito seguire papà nelle sue avventure di caccia, in particolare a beccacce e a tordi, ma la Majella era la mecca dei “cotorni”, una montagna mitica, regina indiscussa di tante storie raccontatemi da papà e dai sui amici. L’unico dubbio era se l’indomani la sveglia sarebbe “suonata” anche per me!

Così andai a dormire già vestito da caccia, addirittura indossando la giacca, tolta per il troppo caldo nonostante la notte insonne passata e i miei scarponcini di fianco al letto. Era notte, neanche mezzanotte, una mano sulla spalla e un sussurro “forza a papà …andiamo”.

Ero poco più che un bimbo, forse sarà stato il sonno, ma ricordo un viaggio silenzioso, anche i nostri cani dormivano. Papà, sorridendomi – «Se’ cerca di dormire, oggi sarà dura!».

A passo lento

Dopo oltre un’ora di viaggio, parcheggiata l’auto e fatti scendere i nostri setter le mitologiche Queen e Nanù, ancora era buio. Papà legò i cani e con fare sicuro mi guardò esclamando – «andiamo, passo lento dobbiamo guadagnare la vetta per “sentirle” cantare». Davanti a noi un bosco fitto, buio, ma la luna ci indicava la strada e l’infinita esperienza di mio padre mi rassicurava e rendeva lieve il nostro incedere. Solo finiti gli alberi mi resi conto della maestosità di quella montagna: la Majella.

Papà – «ci siamo quasi», eravamo prossimi all’alba e la vetta a circa un’ora da noi. Dopo oltre due ore di cammino, la montagna iniziava a colorarsi. Ricordo benissimo, come fosse oggi, i cespugli di erica, i cardi e le tantissime pietraie tipiche. Improvvisamente il lento piede si interruppe. Un canto nuovo per me si distingueva fra i tanti. Un verso quasi gutturale, che aveva il colore delle pietre di quelle montagne, grigio – “Ch crrr, ch crrr”.  Sono loro, inconfondibili: le coturnici!

Il traverso sotto la dorsale della montagna

Papà, mentre liberava i cani, mi fece sedere su una di quelle rocce, e lui a me di fianco, abbracciandomi – «aspettiamo l’alba, poi bisogna capire dove sono».

Fatto giorno, iniziammo un lungo traverso appena sotto la dorsale della montagna. Proprio in direzione di quel canto che alle prime luci si interruppe. I cani setacciavano l’aria in cerca di un’emanazione, sembravano telecomandati, ma semplicemente erano esperti visti i numerosi incontri avuti con quel fantasmagorico pennuto. A colpirmi furono le infinite pietraie, pericolosissime e contraddistinte da tantissime croci in memoria di sfortunati cacciatori e avventurieri.

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Di nuovo il canto

I cani continuavano a cercare a più non posso ad un ritmo incredibile, mossi da quell’istinto che gli animali e solo alcuni uomini conservano. Seguivo, non con poca fatica, il passo di papà quando improvvisamente si bloccò nuovamente – «hai sentito?» – ed io – “si”. Nuovamente quel particolare canto. Non molto distante da noi, appena sotto una pietraia in basso, si notava un pianoro, ristretto, risicato, delimitato da un fitto boschetto di carpini.

L’erba era verde, si distingueva ancora la rugiada del primo mattino, che rendeva il prato a tratti argenteo. Al centro di quel piccolo Eden nel mezzo di quella montagna estremamente impervia, una coturnice “richiamava”. Il tempo di studiare il vento per un eventuale avvicinamento, le nostre setter erano già nei pressi.  

Come due statue

Dall’alto, mentre scendevamo, subito ci rendemmo conto che il luogo scelto da quella pernice era perfettamente in grado di offrirle il giusto riparo anche dai cacciatori. L’accidentata pietraia che ci conduceva al luogo sembrava essere infinita. Papà balzava di sasso in sasso senza mai perdere il contatto visivo con me e con i cani. Pochi minuti e il verde del pianoro ci accolse. Queen, cagna più anziana, in ferma e a poca distanza Nanù in consenso, come statue, con i muscoli tesi come corde di violino, ne ricordo ancora la tensione, sembrava tremassero tanto era forte l’emanazione del selvatico. Nanù dopo poco prese il sopravvento, cercando di incalzare il volatile. Gattonava come un ghepardo, pancia per terra e testa alta.

Quel grigio tendente al blu

La furba coturnice pedinava ed i cani la seguivano fino ad entrare in quel piccolo bosco di carpini. A quel punto papà scelse di seguire i cani nello sporco sperando di riuscire ad anticipare la famigerata Alectoris Graeca. Ma proprio mentre entrava nel folto bosco quest’ultima, braccata dai cani, si involò passandomi a pochi metri di distanza. 

Ne ricordo la livrea, quel grigio tendente al blu, il becco rosso come il corallo ed il collo bianco orlato di nero. Dietro di me ad una distanza di una cinquantina di metri vi era una piccola quercia, seguii il volo della coturnice che improvvisamente si abbassò proprio nei pressi del piccolo albero. Mentre mio padre usciva dal folto del piccolo carpineto, i cani ci misero veramente poco ad intuire la rimessa del pennuto. Pochi minuti ed erano già lì sotto quell’alberello nuovamente in ferma.

Da lì l’immaginabile

Papà mi raggiunse e velocemente cercò di portarsi nei pressi delle cagne. Incredulo sulla rimessa così corta di un animale noto per i suoi voli lunghi e spesso a perdita d’occhio. Nel camminare, improvvisamente vedemmo l’uccello aprire le ali un istante per poi perderne le tracce. Rimasi indietro, aspettando l’esito di quella battaglia vinta dalla regina di quella montagna. Mentre andavamo a riprendere il sentiero, richiamammo i cani. Queen, l’anziana, pochi secondi arrivò prendendo di petto il sentiero che ci avrebbe riportato sui nostri passi. Mancava Nanù. 

Nanù era una cagna con una storia incredibile, un cane di alta genealogia, nata sorda e finita nelle mani di gente indegna e poi ripresa con forza da papà perché maltrattata e denutrita. A caccia era una macchina da guerra e nonostante il suo handicap era estremamente “collegata”. Lei sapeva in ogni momento quale era la nostra posizione e non serviva neanche chiamarla. 

Ma quel giorno qualcosa andò storto…

I minuti passavano, del cane ancora nessuna traccia. La montagna durissima, soprattutto dopo tante ore di cammino, era lì senza fare sconti. Iniziammo a preoccuparci e i nostri volti si fecero improvvisamente seriosi. Mentre mio padre riprendeva i propri passi a ritroso proprio verso quel piccolo pianoro, io continuavo a cercare il cane. Davanti a noi, a margine di quel prato quel querciolo. Papà allungando il passo gli si avvicinò e con le braccia aperte mi guardò dicendomi con voce sommessa – “Nanù è andata giù!”.

Vivo o morto torna a casa con noi

Mi affacciai disperato dall’orlo di quel burrone e mi colse un immenso sconforto. Il tutto reso ancora più pesante dalla fatica. Passarono alcuni minuti, ero un ragazzino, l’abbraccio di mio padre ed un suo sorriso appena accennato mi diedero la forza di non piangere e non lasciare cadere in quel burrone anche l’ultima speranza.

Seduto, mentre bevevo un po’ di acqua dalla borraccia, notai un fare insolito di papà. Andava avanti e indietro come se stesse cercando un modo o una via per scendere sotto a quel dirupo. Improvvisamente si girò verso di me – «vivo o morto il cane tornerà con noi a casa, forza e coraggio!».

Riprendemmo per un pezzo la pietraia ed iniziammo a scendere. I sassi diventavano sempre più grandi tanto da formare dei veri e propri salti. La pendenza costringeva mio padre a dovermi prendere continuamente in braccio. 

La vista sulla valle

Ma incessantemente continuavamo a scendere lungo il margine di quell’asperità. Scendevo per lo più seduto lasciandomi scivolare ed aggrappandomi ad ogni appiglio. La nuda montagna dopo poco lasciò il posto al bosco. Segno che il peggio lo avevamo passato ma non era semplice capire a quel punto la direzione da prendere venendo meno i punti di riferimento presi ad inizio discesa. Ero stanco, avvilito, profondamente dispiaciuto. 

Le pietre lasciarono il posto alle foglie, il soffice sottobosco affievoliva il nostro incedere e rendeva rumoroso il nostro passo. Era passata oltre un’ora dall’inizio della discesa, ma eravamo quasi giunti ai piedi di quel massiccio roccioso. Il bosco, in quel punto un po’ più rado, ci regalava luce e una vista sulla valle. 

Una gioia incontenibile

Mentre bevevo e consumavo l’ultimo mandarino sentii dei passi. Inizialmente non dissi nulla a papà perché pensavo fossero frutto della mia immaginazione. Dopo alcuni istanti li sentii nuovamente erano ancora più distinti. Ma li per li non dissi ancora nulla visto che la montagna ospitava tantissimi animali selvatici. Ma i passi lenti si fecero sempre più regolari e tra le foglie del sotto bosco ancor più risonanti. Fermai mio padre che nel frattempo aveva ripreso a camminare – «Papà ascolta, li senti?» e lui – «sarà forse una volpe, andiamo» – ed io – «ma vengono verso di noi, sono vicini». Quell’attimo tutto si fermò e così si impresse nella mia mente. Da un angolo della montagna, claudicante, la giovane setter si presentò al nostro cospetto. L’abbracciai, papà la visitò e controllò che tutto fosse apposto, il cane era acciaccato ma tutto sommato in buono stato. Non riuscii a contenere la gioia, condivisa con papà, Nanù e Queen e piansi.

A quel punto mentre riguadagnavamo la strada ci rendemmo conto di essere scesi molto distanti dalla nostra auto. Camminavamo sul ciglio quando un trattore con tanto di carrello ci affiancò – “Vi serve un passaggio?” – papà non esitò – “Magari, grazie mille” – ed io «figo il giro nel carrello del trattore», in fondo ero solo un ragazzino.

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