di Paola E. Polidoro – Nelle scorse settimane la città martire è finita nel dibattito per una questione legata a criminalità organizzata, mafia e mancanza si sicurezza, una sensazione vissuta da molti cittadini ai quali venne data ampia rassicurazione. A margine di quell’acceso dibattito però, bolle calda quella che si può ben definire una palude. Nell’aria di questa città martire soffia un vento medievale, intriso di silenzi e sottomissioni. Non ci saranno cosa nostra o lupara bianca, ma un altro tipo di omertà sembra aver messo radici – un’omertà sottile e quotidiana, fatta di complicità e silenzi comprati a basso costo, che ricorda i tempi in cui i poveri campavano con gli avanzi dei signori.
Omertà come mezzo di sopravvivenza
Nel Medioevo il signore del castello, di tanto in tanto, lanciava qualche tozzo di pane ai pezzenti assiepati sotto le mura. Cassino oggi rievoca quella scena: lavoratori della comunicazione ridotti a straccioni metaforici attendono sotto il castello del potere, sperando negli scarti di cibo elargiti dai potenti di turno. È l’immagine che evoca una scena del film “Il Nome della Rosa”, dove i contadini affamati vivacchiano sotto le mura dell’abbazia aspettando i rifiuti dei monaci. Oggi, al posto del pane raffermo e della minestra annacquata, ci sono favori, spiccioli e promesse: una sponsorizzata, la partecipazione a un evento, un posto in prima fila a una conferenza stampa – piccole elemosine per tenere buoni i moderni servitori.
Chi lavora nella comunicazione locale spesso “fa la fame” in senso letterale e figurato: compensi irrisori, collaborazioni pagate poche decine di euro se va bene, e nessuna certezza per il futuro. In un tale contesto, il silenzio diventa moneta. Accettare di non raccontare ciò che accade davvero, di chiudere un occhio su scandali o inefficienze, garantisce la sopravvivenza professionale. I lavoratori del settore asserviti si accontentano degli avanzi – perché quelli passano il convento e il castello mediatico. Meglio qualche misero euro oggi che la prospettiva di perdere anche quello. Così l’omertà diventa pane quotidiano: si tace per campare delle briciole.
Informazione asservita ai potenti di turno
In un tale sistema, l’informazione è indirizzata con cura per non ledere il signore di turno, il prete di turno, l’imprenditore dell’ultima ora. La notizia scomoda viene ammorbidita o insabbiata, l’indagine giornalistica finisce nel cassetto se rischia di disturbare il manovratore. “Esce” solo ciò che “serve”. Guai a urtare il potente locale – che sia un politico influente, un imprenditore munifico o magari un alto prelato – perché dal loro tavolo cadono le briciole che tengono in vita i “narratori del territorio”. Il risultato? Un’informazione locale spesso addomesticata, che loda le iniziative del notabile e sorvola sui suoi passi falsi. La realtà viene filtrata, edulcorata, a beneficio di chi comanda.
Del resto, come denunciano alcuni esponenti del settore, quando i reporter sono precari con contratti capestro e paghe da fame, senza alcuna tutela, diventano “ostaggi di chi è forte” e non possono permettersi di essere liberi di “scrivere le cose come stanno”, perché quella della libertà è una scelta che può lasciare in miseria. L’indipendenza di chi informa è strangolata dalla necessità: la penna trema quando deve scegliere tra la verità e il proprio piatto di minestra. Meglio un articolo di circostanza oggi che l’esilio dalla corte domani. In questo clima, l’informazione somiglia a un teatrino feudale: si recita la parte assegnata dal padrone, e il copione evita accuratamente di nominare i peccati del re, del sacerdote e del giullare. Anche se capita che anche chi decide per le lenticchie piuttosto che per la verità si presenti come affamato e dispensatore di principi illuminati. E’ così che certi meccanismi di sudditanza ricordano fin troppo bene dinamiche da corte medievale o da piccola mafia quotidiana.
Qualche euro e un piatto di lenticchie: il prezzo del silenzio (e del fango)
Ma c’è di peggio del silenzio comprato: c’è il fango gettato su chi non ci sta. In questa triste commedia, i veri antagonisti non sono più i potenti – bensì i colleghi affamati tra loro. Per cento euro in più di paga, c’è chi è pronto non solo a tacere, ma a infangare i colleghi che rifiutano di piegarsi al sistema. È il classico schema del divide et impera: i servi più zelanti attaccano i pochi che provano a spezzare le catene, magari tacciandoli di essere idealisti, ingrati e traditori dell’ambiente. Addirittura inadeguati. Inveire contro il collega “scomodo” diventa un altro modo per dimostrarsi leali al padrone – e guadagnarsi la sua benevolenza, magari sotto forma di quel famoso piatto di lenticchie o di un favore promesso.
Questa guerra tra poveri dell’informazione locale è forse l’aspetto più avvilente. I comunicatori ridotti alla fame finiscono per farsi la guerra l’un l’altro, invece di lottare insieme per migliori condizioni o per la verità. Il sistema fallato premia il servilismo, non la qualità: non importa quanto sei bravo a scrivere o a riportare fatti accurati, importa quanto sei disposto a stare zitto al momento giusto e a colpire chi non lo fa. Il talento e la dignità professionale passano in secondo piano, sostituiti da una competitività malsana a chi serve meglio il potente di riferimento.
Spezzare il circolo vizioso
Cassino, dunque, non è una città dimenticata degli anni di piombo, ma il suo tessuto informativo rischia di marcire sotto un’altra forma di omertà, meno appariscente e più subdola. Un’omertà fatta di favori e favoritismi, di sorrisi malcelati e occhiolini buttati qua e là, di caffè offerti e colazioni pagate , di dipendenze economiche e morali che trasformano i “comunicatori” in vassalli e i potenti in feudatari. La scena non è quella di un film poliziesco, bensì di un dramma medievale: nel banchetto del potere locale c’è chi mangia arrosto e chi raccoglie le briciole cadute dalla tovaglia. E finché i secondi accetteranno la parte dei mendicanti, i primi non avranno alcun interesse a cambiare copione.
Uscire da questo circolo vizioso non è facile. Richiede coraggio, richiede che gli “affamati” dell’informazione ritrovino la solidarietà tra loro e la dignità del proprio ruolo. Significa rifiutare quel pugnetto di lenticchie avvelenate, denunciare i giochetti di chi scambia favori con silenzi, e smettere di usare penna e microfono come armi contro i colleghi onesti. Solo così si potrà sperare che a Cassino – città dalla storia nobile e dolorosa – l’informazione e la comunicazione tornino ad essere un servizio al pubblico e non un mercato degli scarti.
In fondo Cassino ha un’anima forte e tenace, come le braccia e i volti duri dei suoi antenati. Liberare la voce, spezzare le catene del servilismo, vuol dire restituire a questa città il diritto a un’informazione libera, leale e di qualità. È un obiettivo ambizioso, ma necessario: perché vivere di soli avanzi, metaforicamente parlando, non è vivere davvero. È ora di ribellarsi alla fame (di cibo e di verità), di dare spazio al confronto onesto e coerente, costruttivo e propositivo. E di riscrivere la storia quotidiana dell’informazione locale con onestà e coraggio, lasciando i banchetti feudali ai romanzi storici e restituendo alla realtà il sapore della libertà di parola.
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