Il malessere dei giovani e il bisogno di essere ascoltati

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di Gabriele Pittiglio – Dalla fine dell’emergenza COVID, e dunque dal momento in cui il lockdown è terminato e piano piano si è tornati alla normalità, nei giovani è rimasto un vero e proprio malessere aumentato proprio dal 2020.
Rimanere chiusi in casa ha fatto sì che la socialità venisse meno e dunque che le risate, i racconti e i cosiddetti “gossip” tra noi ragazzi, avvenissero soltanto tramite uno schermo.
Certo è che la sensazione tra uno schermo e quella dal vivo non sono la stessa cosa, ragion per cui da sei anni ormai, i giovani vivono un disagio psicologico che riflette sulla scuola, sulla famiglia e sulle stesse amicizie.
Questo disagio avviene attraverso l’ansia e una sensazione di solitudine, insicurezza e fragilità. Viene avvertito nei ragazzi la frustrazione di non essere capiti e dunque di inadeguatezza mettendo gli stessi sotto pressione.
Secondo quanto riporta il Sole 24ore in un articolo risalente a maggio 2024, sono circa il 49,9% dei ragazzi tra i 18 e i 25 anni, che hanno dichiarato di aver sofferto di ansia e depressione a causa dell’emergenza sanitaria.
Dalla pandemia è dunque scaturita un’altra emergenza che riguarda in maniera diretta gli adolescenti che decidono troppo spesso di abbandonare gli studi poiché si confrontano in un ambiente competitivo. Cresce la voglia di avere successo rivelando però un paradosso enorme: ossia quello di ragazzi presenti fisicamente ma assenti moralmente ed intellettualmente in aula.
La manifestazione del disagio avviene mediante nausea, mal di pancia, mal di testa, preoccupazioni costanti sulla vita scolastica e familiare, paura del fallimento o il giudizio degli altri.
Proprio su quest’ultimo aspetto, spesso abbiamo sentito dire che le parole possono ferire più di uno schiaffo o di un pugno, ma nonostante tutto continuano ad aumentare nelle periferie italiane, dove la presenza dello Stato non viene percepita dai cittadini, le cosiddette baby gang.
A Treviso quattro ragazzi tra i 17 e i 19 anni sono stati picchiati brutalmente da dieci coetanei intorno alle 22 di sabato sera in una zona di locali sempre affollati.
Vivere la piazza e la città è diventata ormai una preoccupazione non solo per i genitori, ma anche per i ragazzi che decidono di svagarsi la sera, proprio per non sentire il peso del malessere giovanile che accomuna molti.
Chi ci definisce come “la generazione svogliata” o “fragile” sono gli stessi che portano avanti una narrazione dominante che ci dipinge con pennellate veloci e superficiali, trasformando ansie sistemiche in difetti individuali del carattere.Il paradosso è accecante: ci viene richiesto di eccellere, di essere fluorescenti nella nostra unicità, ma il sistema è strutturato per punire chiunque devia dal percorso prestabilito. Siamo immersi in una cultura della performance continua (amplificata dalla vetrina costante dei social media, dove siamo visti da centinaia, ma raramente capiti da uno solo). Quando l’inevitabile fallimento arriva, il giudizio svalutante non fa che moltiplicare l’isolamento. Non ci viene offerto un confronto sulla complessità dei nostri stati d’animo, ma una semplice equazione binaria: successo = merito; fallimento = colpa. Il vero atto rivoluzionario, quello che può invertire la rotta del disagio crescente, è l’ascolto autentico.
Ascoltare non significa stare in silenzio in attesa del proprio turno per parlare. Significa accogliere le emozioni, validare la difficoltà e riconoscere la complessità che si cela dietro un comportamento o un fallimento. Il messaggio da trasmettere è davvero cruciale e riguarda tutta la società ma anche le singole famiglie. Rapporti distesi e aperti con la propria famiglia sono dei fattori protettivi e noi giovani abbiamo bisogno di una famiglia presente che sappia ascoltare e sappia darci il giusto sostegno con un consiglio, anziché frenare i nostri obiettivi. La famiglia deve incoraggiarci a raggiungerli.
Un ascolto autentico che usi il giudizio come modo costruttivo anziché distruttivo, diventando uno strumento di crescita.

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