Di P. E. Polidoro – Da giorni, da settimane, da mesi un giovane ragazzo straniero si aggira in centro. Ha l’aspetto confuso, si comporta in maniera strana, cammina in mezzo alla gente, nel cuore della città. Resta per ore fermo a fissare il vuoto. Raccoglie da terra rifiuti e cicche e le mastica, poi le ingoia e si provoca il vomito. Lo fa sotto il sole cocente. Lo fa tutti i giorni, lo fa anche con i tappi delle bottiglie che trova, lo fa davanti ai passanti. Gente che prosegue, a tratti schifata, di sicuro indifferente. Molte di queste persone sono le stesse che solo qualche settimana fa, davanti al servizio andato in onda in tv su un giovane straniero che si tolse la vita dopo il grido di aiuto lanciato proprio dall’aula consiliare di Cassino, si battevano le mani in petto. Puntavano il dito contro un sistema sbagliato. Criticavano duramente un modo di fare così spregevole. Tutti indignati dall’alto dei loro divani e delle poltrone.
Un sistema che non sistema
Ed oggi la domanda che viene spontanea è: non fanno tutti parte di questo sistema? Quello che ci porta tutti, che porta Cassino, sulla tv nazionale per un suicidio che si sarebbe potuto evitare? E noi quel giorno in aula Di Biasio, a differenza di qualche “penna” pronta a cavalcare l’onda, c’eravamo, abbiamo visto Ousmane, abbiamo provato a parlarci, chiedeva solo di tornare dalla mamma, con la sua cagnolina al guinzaglio. In un francese stentato. Lo abbiamo visto tendere le mani nell’aula consiliare, ma in tanti non hanno voluto neanche farsi sfiorare. Distratti da un aperitivo che li attendeva in qualche bar e infastiditi per quel “fuori programma” che li aveva fatti attardare. Lo abbiamo visto disperarsi, lo abbiamo visto sbracciarsi e lo abbiamo visto allontanarsi nel buio di una serata di ottobre. Lo abbiamo cercato, per qualche giorno è rimasto a Cassino, l’unica richiesta era quella di tornare a casa dalla madre. Dopo un paio di giorni non lo abbiamo più visto, e per settimane abbiamo provato a cercarlo, anche nei comuni limitrofi. Di lui si sono perse tutte le tracce. Perso nel sistema, perso nell’indifferenza, perso e basta. Poi Ousmane è riapparso, ma era tardi, tardi per salvarlo, tardi per ritrovare l’umanità, tardi per portarlo dalla madre. Tardi per correggere il sistema. Il suo ultimo messaggio, prima di togliersi la vita, è stato lasciato su un muro, chiedeva di essere riportato dalla madre. Anche senza vita. Ed ecco che dopo il servizio andato in onda nelle scorse settimane tutti si sono indignati, anche quelli che dopo quella serata di ottobre avevano criticato il giovane straniero “fastidioso” che aveva dato in escandescenze nell’aula consiliare. Lasciandolo poi lì, con la sua storia e la sua vita.
Servono “gli altri” per farci notare il cortile pieno di immondizia
Poi arrivano i giornalisti da fuori, arrivano le “tv”, arrivano i “servizi”. Arrivano e ci raccontano cose che avevamo tutti sotto il naso, ma che per comodità abbiamo preferito ignorare, per poi scandalizzarci quando a scandalizzarsi è una società intera, che vive fuori, che vive lontano dall’ombra dell’abbazia. Per la cronaca, la cagnolina di Ousmane è stata ritrovata poi, trucidata e lasciata in una strada sterrata nei pressi di Sant’Angelo.
Per chi volesse battersi ancora un po’ in petto.
E noi anche questo lo avevamo scritto, ma forse bisogna andare in tv per innescare emozioni nei cuori e redenzione negli animi.
Capita di vivere nell’immondizia, capita che il vicino ce lo faccia notare, ce lo dica. Ma nessuno è “responsabile” di quell’immondizia. Poi arriva il turista, lo straniero e ci chiede il conto di quella immondizia. E tutti diventano ambientalisti. Che strana la vita!
L’umanità persa nei social e nell’apparenza
Tornando al giovane che gira nel centro. Si chiama Om – forse non si scrive così – ci ha detto di avere 22 anni, poi 28, probabilmente meno di 30. Arriva dall’Etiopia, così racconta. Sicuramente ha un luogo in cui vive, non è sporco. Cambia gli indumenti che indossa e sono puliti. A maggio, dopo l’ennesima volta che aveva mangiato cicche di sigarette e un tappo di birra, per poi dare di stomaco sotto i portici di piazza Labriola, è stato richiesto l’intervento del 118. Il ragazzo è stato caricato e trasportato al Pronto soccorso.
Il buio della notte più scura dentro uno sguardo
Qualche giorno dopo era di nuovo così, perso nei suoi pensieri, con lo sguardo fisso nel vuoto, fermo. A masticare qualche cicca. A stare male. Nell’indifferenza e nel fastidio. Eppure Om esiste, è fatto di carne e ossa. Nei suoi occhi si intravede il buio più profondo, si percepiscono il dolore e la tristezza. Come se fosse solo, completamente abbandonato, nell’oscurità. Parla pochissimo, capisce un po’ l’inglese. Ha rifiutato un secondo trasporto in ambulanza. Anche altri stranieri, che lo conoscono e che ci hanno confermato che ha un alloggio e che vive in città, nei pressi del centro, ci hanno detto che non sta bene, che ha dei problemi. Che potrebbe anche diventare pericoloso. E noi non siamo medici, non possiamo dirlo. Ma è evidente il disagio di questo ragazzo che potrebbe essere un fratello, un amico, un coetaneo, sicuramente un figlio.
Dio non parla con le campane
E’ evidente che abbia bisogno di aiuto e fa male, così come ferisce l’indifferenza della società che si batterebbe in petto se questa stessa storia la raccontasse una tv nazionale. Così come ferisce vedere i cassinati alternarsi davanti alle telecamere per parlare delle campane, perché per alcuni sono “la voce di Dio”, quando solo qualche metro più in là c’è Om. Nel silenzio del Signore. Sarà poi lo stesso quel Dio? Ci sono problemi davvero più seri di una campana che suona forse troppo o troppo forte.
Ma certo, Om ora non è un problema, Om oggi non è un problema. Oggi serve a ben poco raccontare la sua storia. Domani forse si attiverà qualcuno, qualche altro collega con la risposta in tasca, qualche “addetto ai lavori”, qualcuno che venderà un servizio per qualche euro alla tv nazionale e ci racconterà quello che dovremmo sapere, che vediamo tutti i giorni. Perché lucrare sul dolore fa sempre click e audience, perché c’è chi avanza la “paternità” anche su questo dolore umano.
Una luce nel buio
Noi non abbiamo la risposta in tasca, nessuno ce l’ha. Forse. Sicuramente la risposta non è “nascosta” in un servizio montato per una qualsiasi tv, dietro una telecamera o su qualche rivista patinata. La risposta ci fa male, come un pugno sferrato dritto nella pancia. La risposta è nel vuoto in cui si perde Om, con i suoi occhioni neri. La risposta è nell’indifferenza che riempie quel vuoto. La nostra. La riposta siamo noi, anche se ci costa ammetterlo, anche se è pesante ammetterlo. E da domani questa indifferenza continuerà, sconfinata come il buio nello sguardo di Om. Il buio nella vita di Om a un certo punto è arrivato, qualcuno ha spento la luce e noi non stiamo facendo nulla per riaccenderla. Forse fino al momento in cui questa storia non sarà raccontata da qualcuno che Om non lo ha mai visto, conosciuto. Per cui Om è uno scoop. Per cui Om è “un contenuto”. Perché la falla nel sistema siamo noi e la dipendenza dalle apparenze.
Spero che per Om non sia tardi, che con queste parole riusciremo a recuperare il tempo perso e la distanza. Che nel buio per Om ci possa essere una luce, un faro, che lo riporti da noi o dovunque voglia essere. Spero di non dover raccontare un’altra storia di dolore, di un ragazzo che poteva essere salvato, ma che è morto di indifferenza per diventare protagonista di un servizio televisivo. Perché Om è qui, Om è oggi. E per vedere Om basta aprire gli occhi, non serve accendere la televisione o scorrere il dito sui social. Lo dobbiamo a lui, lo dobbiamo a Ousmane, lo dobbiamo a tanti come loro che per un motivo o l’altro si sono “persi” nell’oscurità profonda, pur camminandoci a fianco tutti i giorni sotto lo stesso cielo.
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