Dopo l’immissione del 16 marzo scorso l’Abate Luca ha presieduto oggi per la prima volta a Montecassino l’Eucarestia. Ieri la prima uscita a seguito della Fiaccola benedettina pro pace et Europa una giù in citta e l’accoglienza in Abbazia dei tedofori e delle delegazioni di Norcia Subiaco e Cassino con i rispettivi Cortei sempre al seguito della Fiaccola. Tra pochi giorni il Pontificale solenne presieduto da S.Eminenza Cardinale Leonardi Sandri. Senza dubbio periodo intenso di eventi legati alle radici benedettine e agli insegnamenti del Santo Padre Benedetto.
Il testo dell’omelia
“Consentitemi di iniziare questa omelia con un ricordo personale. Quando si è giovani si è proiettati verso il futuro, ma quando si inizia a essere anziani come me, prevale l’attitudine a ricordare, e si diviene più capaci di riconoscere i passaggi di Dio nella propria storia. Io sono entrato in monastero nella terza domenica di Avvento, in quella che la tradizione liturgica definisce domenica «Gaudete», perché vi risuona forte l’invito a gioire, a rallegrarsi nel Signore, perché il Signore è vicino (cf. Fil 4,4-5). Oggi ricevo la grazia di presiedere per la prima volta l’eucaristia qui, a Montecassino, sulla tomba dei santi Benedetto e Scolastica, proprio nella quarta domenica di quaresima, nella cosiddetta domenica «Laetare», perché anche in questa domenica risuona forte l’invito a gioire, a rallegrarsi. «Rallegrati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate radunatevi, sfavillate di gioia con essa» (cf. Is 66,10-11).
Rallegrati, gioisci: il mio cammino monastico sembra davvero caratterizzato da questa gioia profonda, che vorrei condividere con voi, perché anche voi possiate trovare, nella vostra vita, nella vostra storia, motivi di gioia e di allegria, perché davvero il Signore è vicino e ci sazia al seno delle sue consolazioni, come sempre ci annuncia il profeta Isaia. Abbiamo bisogno, per vivere, di nutrirci di tante cose, ma non dobbiamo mai dimenticare che tutti abbiamo bisogno soprattutto di saziarci della consolazione di Dio. Di nutrirci, di abbeverarci, alle sorgenti inesauribili della sua consolazione. Dio è colui che ci consola, Dio è colui che asciuga le nostre lacrime, e questa è forse una delle immagini più belle del volto di Dio che le Scritture ci rivelano. Dio è il nostro consolatore, Dio è colui che asciuga le nostre lacrime.
E lo fa in tanti modi. Oggi, la liturgia della Parola ci dice che Dio ci consola e ci rallegra cambiandoci lo sguardo, dandoci occhi diversi. Anche se non siamo ciechi come il cieco nato che Gesù incontra a Gerusalemme, anche se presumiamo, o pretendiamo di vederci bene, come fanno i Giudei, in verità anche noi abbiamo bisogno di essere guariti, abbiamo bisogno di essere risanati nelle nostre tante cecità. Se diciamo «noi vediamo», il nostro peccato rimane. E invece noi siamo qui, oggi, per chiedere al Signore una guarigione: guariscici, Signore, apri i nostri occhi, risana la nostra vista, perché noi pensiamo di vederci bene, e invece anche i nostri occhi sono malati.
Un grande artista svizzero, lo scultore Alberto Giacometti, diceva che tutti noi abbiamo gli occhi, ma non tutti abbiamo lo sguardo. Non basta avere gli occhi che funzionano per vederci bene, per avere lo sguardo giusto. Abbiamo bisogno di essere illuminati, come gli Efesini, ai quali scrive l’apostolo Paolo, condividendo con loro un inno battesimale, probabilmente in uso nelle sue comunità: «Svegliati, tu che dormi, risorgi dai morti, e Cristo ti illuminerà». Risorgere dai morti, camminare in una vita nuova, significa anche questo: lasciarsi illuminare da Cristo. E questa non è soltanto un’esperienza che ci attende in futuro, quando dovremo attraversare le oscurità della morte; è un’esperienza già presente, che facciamo nel qui e nell’oggi della nostra vita, così come essa è. Nella tradizione della Chiesa il battesimo viene definito anche con questo termine: è una «illuminazione». Dio ci illumina, ci cambia lo sguardo, guarisce i nostri occhi malati, ci permette di vedere in modo nuovo.
Possiamo allora domandarci: come è lo sguardo di chi si è lasciato illuminare, guarire da Gesù, consolare da lui e dal Padre suo che è nei cieli? Credo che le letture che abbiamo ascoltato ci suggeriscano molte risposte. Tra le tante, ne raccolgo tre.
Anzitutto è lo sguardo della fiducia. Il cieco nato di Giovanni non ci vede, eppure è capace di questo sguardo che è appunto lo sguardo della fiducia. Gesù infatti dice al cieco: «Va’ a lavarti alla piscina di Siloe». Questo imperativo comporta per il cieco un’obbedienza tutt’altro che facile. La piscina di Siloe era infatti situata nel punto più basso di Gerusalemme, mentre il tempio sorgeva nel punto più alto. Per raggiungere la piscina questo cieco doveva attraversare tutta la città, percorrendo le sue viuzze in discesa, spesso strette, tortuose: era un cammino faticoso per chi ci vedeva bene, figuriamoci per un non vedente. Per lui era addirittura proibitivo. Inoltre Gesù prende del fango e glielo spalma sugli occhi. È un gesto che renderebbe ciechi anche noi. Cosa mai riusciremmo a vedere con del fango spalmato sugli occhi? Anziché guarirlo, Gesù sembra voler rendere ancora più impossibile il suo vederci. Eppure questo cieco obbedisce, nonostante tutte le difficoltà, e fa’ quello che Gesù gli ha detto di fare. Prende e va alla piscina di Siloe, si lava nelle sue acque, ed ecco che inizia finalmente a vedere. Gesù ha detto e fatto qualcosa, ma se non ci fosse la sua obbedienza, il suo affidamento, il fango, da solo, non avrebbe potuto restituirgli la vista. Anzi, come dicevo, lo avrebbe reso ancora più cieco. Abbiamo bisogno dello sguardo della fiducia, per tornare a vederci bene. Altri sguardi, come quello del sospetto, del giudizio, della sfiducia, della diffidenza, della critica gratuita, della mormorazione malevola, o della invidia e della gelosia, o peggio ancora del disprezzo e dell’ostilità, sono tutti sguardi che ci rendono ciechi.
Un secondo sguardo lo incontriamo nella prima lettura, che ci ha raccontato di come Davide, il più piccolo tra i suoi fratelli, sia stato scelto e consacrato come nuovo re di Israele, al posto di Saul. In questo racconto incontriamo lo sguardo del cuore. Mentre Samuele, il profeta, vorrebbe ungere Eliab, che si impone per la sua altezza e la sua vigoria fisica, Dio sceglie il più piccolo, che era stato scartato, di cui persino il padre Iesse si era dimenticato, lasciandolo a pascolare il gregge, senza chiamarlo perché partecipasse anche lui al sacrificio. Eppure Dio scegli lui, perché – ed è Dio stesso a spiegare il motivo della scelta – se l’uomo vede l’apparenza, il Signore vede il cuore. Egli vede il cuore di Davide, non si limita a lasciarsi condizionare dalla sua piccolezza e giovinezza. Vede e conosce il suo cuore. L’espressione ebraica può però essere intesa e tradotta con una sfumatura diversa: non solo Dio vede il cuore di Davide e di ogni altra persona, ma soprattutto Dio «vede con il cuore». I due significati possibili non sono alternativi, ma si integrano reciprocamente: si può vedere il cuore dell’altro solo se lo si guarda con gli occhi del proprio cuore, a partire dal proprio cuore. Lo sguardo del cuore è lo sguardo dell’amore, degli affetti, dell’amicizia; è anche lo sguardo della misericordia, del perdono, della compassione, dell’accoglienza. È di questo sguardo che abbiamo bisogno nelle nostre relazioni, per conoscere davvero il cuore dell’altro, senza fermarci soltanto alle apparenze.
Infine, il terzo sguardo è quello della luce, o meglio di chi è nella luce. Paolo lo annuncia agli Efesini: «un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; ora, il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia, verità» (Ef 5,8-9). Abbiamo bisogno di uno sguardo diverso, luminoso, capace di riconoscere la bontà, la giustizia, la verità, ovunque si manifestino, anche al di là e al di fuori dei recinti nei quali così spesso ci rinchiudiamo.
Ecco, in questa eucaristia possiamo davvero chiedere al Signore di guarire anche noi, come ha guarito il cieco di Gerusalemme, e di farlo donandoci questi tre sguardi, o meglio questi tre atteggiamenti dello stesso sguardo: uno sguardo di fiducia, uno sguardo capace di vedere con i criteri del cuore, infine uno sguardo luminoso, che sa riconoscere il bene ovunque accada, là dove esso si manifesta. E allora davvero potremmo gioire, rimanere nella gioia, iniziare già a godere della gioia di Dio. La gioia di chi sa dare fiducia, la gioia di chi sa guardare con il cuore, la gioia di chi custodisce sempre, anche nell’oscurità della notte, uno sguardo luminoso”.
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